Parrocchia San Giacomo Apostolo - Basilica B.V. della Navicella - Chioggia


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Programma Pastorale

Diocesi di Chioggia

Programma pastorale triennale 2012-2015

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“Signore, dammi quest’acqua” (Gv 4,15)


Carissimi sacerdoti e diaconi, consacrati e consacrate, fedeli laici, il nuovo anno pastorale è all’insegna dell’invito che Papa Benedetto XVI con la Lettera Apostolica ‘Porta Fidei’ (P.F.) ha rivolto a tutta la Chiesa di celebrare nel prossimo 2012-13 l’Anno della Fede, per il quale egli offre delle indicazioni pastorali concrete.
Egli scrive infatti al n° 10 della Lettera Apostolica:
“Vorrei, a questo punto, delineare un percorso che aiuti a comprendere in modo più profondo non solo i contenuti della fede, ma insieme a questi anche l’atto con cui decidiamo di affidarci totalmente a Dio, in piena libertà. Esiste, infatti, un’unità profonda tra l’atto con cui si crede e i contenuti a cui diamo il nostro assenso”.
Vorrei approfittare di alcuni spunti presenti in questo documento per delineare un percorso che impegni la nostra Chiesa diocesana per tre anni, tempo utile perché il programma pastorale possa essere non solo proposto, ma anche studiato, attuato nella misura possibile ad ogni comunità e poi verificato.
Con questo programma pastorale vorrei stimolare in tutti, attraverso la meditazione e la preghiera di una pagina del Vangelo di san Giovanni, il rinnovamento cosciente dell’atto di fede con il quale abbiamo confermato nella Cresima la decisione battesimale “di affidarci totalmente a Dio, in piena libertà”, ciascuno nel nostro stato di vita che abbiamo scelto o accettato. Vorrei inoltre stimolare e proporre delle iniziative che, come dice il Papa, ci aiutino “a comprendere in modo più profondo i contenuti della fede”, in continuità e arricchimento con quanto già in atto nella nostra chiesa diocesana.
Desidero che queste riflessioni e proposte, seppur semplici e brevi, siano oggetto di attenzione personale e comunitaria, nelle parrocchie e nei vicariati, e stimolino i Consigli pastorali parrocchiali, vicariali e diocesano a fare proprie alcune delle indicazioni date o a pensarne altre atte a realizzare quanto ci viene suggerito a partire dall’Anno della Fede, dal cinquantesimo anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II e dal ventesimo anniversario della promulgazione del Catechismo della Chiesa Cattolica.

- I - L’atto della fede e i contenuti della fede


Icona biblica: Gesù e la Samaritana s’incontrano al Pozzo di Giacobbe, in Samaria (Gv 4,1-42).
Questo brano ci racconta l’incontro di Gesù con una donna samaritana, incontro rimeditato, ricompreso e rinarrato da san Giovanni evangelista, insieme discepolo e apostolo, come “itinerario alla fede” per altri futuri discepoli di Gesù. Anch’io lo propongo alla nostra chiesa di Chioggia perché:
- chi conserva viva la sua fede possa verificarla e vivificarla, facendo propria la preghiera di quel papà che a Gesù chiedeva
“Io credo, ma Tu aiuta la mia incredulità!” (Mc 9,24);
- chi sente la sua fede ormai
“uno stoppino dalla fiamma smorta” (Is 42,3) possa “ravvivare il dono di Dio” (2Tm 1,6) che ha ricevuto mediante il battesimo e gli altri sacramenti;
- anche a chi non ha ancora incontrato il Signore Dio apra
“la porta della fede” (cfr. At 14.27).

1. La missione di Gesù e della Chiesa (1-3)

“Gesù venne a sapere che i farisei avevano sentito dire: “Gesù fa più discepoli e battezza più di Giovanni” - sebbene non fosse Gesù in persona a battezzare, ma i suoi discepoli -, lasciò allora la
Giudea e si diresse di nuovo verso la Galilea”.
Gesù ‘fa discepoli’, e li accoglie attraverso il ‘battesimo’ che affida ai suoi discepoli. Con la sua presenza, con la sua parola e con alcuni segni (così san Giovanni chiama i sette miracoli di Gesù narrati nel suo vangelo), Egli provoca negli uditori “la decisione di affidarsi a Dio, in piena libertà”. Questa decisione è insieme frutto dell’azione e della Parola di Gesù e dell’adesione dell’uomo che accoglie l’invito al discepolato: è questo l’atto di fede con il quale una persona “decide di affidarsi totalmente a Dio, in piena libertà”. È da tale decisione che nasce il discepolo di Gesù. Tale decisione è sancita e celebrata nel battesimo, dono dello Spirito che ricrea la relazione del battezzato con Dio, Padre, Figlio e Spirito e, confermata nella Cresima, avvia un itinerario di sempre più profonda comprensione del senso della relazione con Lui e dei suoi insegnamenti.
L’evangelista Matteo comprende in questa luce la missione affidata da Gesù ai discepoli
: “Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato” (Mt 28,19-20).

Per la verifica

Come alimentiamo la grazia del battesimo, perché esso non rimanga infruttuoso per mancanza di cura della nostra fede, cosicché nel tempo invece di crescere e portare frutto si va spegnendo?
La prassi dei battesimi comunitari in contesto di celebrazioni domenicali non potrebbe essere, per tutti quelli che vi prendono parte, occasione di catechesi e revisione della propria risposta al dono del battesimo, evento e grazia per tutta la comunità, anziché essere ‘affare privato’ di ogni famiglia?
Le nostre comunità vanno maturando la consapevolezza di essere ‘Chiesa’ o si vive la fede come affare esclusivamente privato e individuale o al massimo del nostro gruppo di riferimento?

Proposta

Ogni parrocchia fissi, secondo i numeri che si prevedono (la gravidanza dura nove mesi!) da due a quattro celebrazioni annuali che diventino catechesi e festa nella celebrazione domenicale principale. Si potrebbe almeno tentare una curata catechesi battesimale agli adulti, in queste occasioni, almeno nell’Anno della Fede, valutando poi l’opportunità di continuare.
Si tenga come prassi che i battesimi si celebrino nella propria comunità di appartenenza.

2. L’evangelizzazione di Gesù in Samaria:
un modello per la nostra evangelizzazione e per la nostra fede (4-15).


"Doveva perciò attraversare la Samaria. Giunse così a una città della Samaria chiamata Sicar, vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio: qui c’era un pozzo di Giacobbe.
Gesù dunque, affaticato per il viaggio, sedeva presso la sorgente. Era circa mezzogiorno. Giunge una donna samaritana ad attingere acqua. Le dice Gesù: “Dammi da bere”. I suoi discepoli erano andati in città a fare provvista di cibi. Allora la donna samaritana gli dice: “Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?”. I Giudei infatti non hanno rapporti con i Samaritani. Gesù le risponde: “Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: “Dammi da bere!”, tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva”. Gli dice la donna: “Signore, non hai un secchio e il pozzo è profondo; da dove prendi dunque quest’acqua viva? Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci diede il pozzo e ne bevve lui con i suoi figli e il suo bestiame?”. Gesù le risponde: “Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna”. “Signore - gli dice la donna -, dammi quest’acqua, perché io non abbia più sete e non continui a venire qua ad attingere acqua”.
Gesù, pur avendo altre strade per recarsi in Galilea, decide volutamente di attraversare la Samaria, territorio e popolazione disprezzati dai Giudei perché i Samaritani, a causa di deportazioni e importazioni di popolazione (oggi emigrazioni, rientri e immigrazioni), si erano contaminati con altri popoli, soprattutto sul piano religioso. Egli siede ‘presso il pozzo’ mentre i suoi discepoli hanno in città a fare provvista di cibi, un luogo quindi al quale certamente molti si avvicinano, principalmente le donne, per attingere e portare a casa l’acqua per la famiglia. Può essere utile notare che Giovanni chiama volutamente il pozzo con due nomi: il primo indica la ‘sorgente’ da cui scaturisce acqua viva, alludendo particolarmente al dono dello Spirito Santo (cfr. Gv 7,37-39), il secondo indica la cisterna profonda dove si raccolgono anche le acque piovane, per evidenziare che ci vuole uno strumento per tirare su l’acqua e alludendo alla simbologia corrente della ‘Legge-Rivelazione’ che alimenta la fede stessa.
Con questo suo porsi in attesa al pozzo, Gesù si propone sulle strade della vita e dei bisogni vitali dell’uomo. Si propone a tutti gli assetati.
La donna che ora giunge è ‘samaritana’, e in posizione matrimoniale irregolare rispetto alla Legge.
Gesù apre il dialogo per primo, le chiede il suo dono e poi le offre il proprio, dono che la donna ha bisogno di imparare a conoscere: “Se tu conoscessi il dono di Dio…”. Gesù porta la donna a scoprire il suo bisogno, quello che solo Dio può soddisfare: il bisogno dell’acqua viva. Egli fa nascere in lei, attraverso la descrizione e gli effetti di quel dono, il desiderio e infine la richiesta: “Signore, dammi quest’acqua…”.

Per la verifica

“Se tu conoscessi il dono Dio
”. Sto vivendo la mia fede come discepolo che ha scoperto e sempre di più conosce il valore del dono della fede a cui Gesù mi sta conducendo attraverso i Sacramenti (Spirito) e la Parola? Coltivo l’ascolto, il dialogo e lo stare con Lui? Riservo dei momenti precisi e faccio uso di strumenti ‘fissi’ nella mia giornata per prendermi cura del dono della mia fede?
Siamo convinti che abbiamo bisogno di conoscere molto di più il dono della nostra fede e della vita spirituale, che da essa scaturisce, per alimentare il desiderio sempre più profondo e la disponibilità sempre più grande per accogliere e ‘abbeverarci’ allo Spirito e alla Parola?
“Signore, dammi quest’acqua”. Quanto io desidero e cerco Lui, la sua Rivelazione, il suo amore, la sua amicizia? “L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente” (Sal 42,3); “O Dio, tu sei il mio Dio, dall’aurora io ti cerco, ha sete di te l’anima mia” (Sal 63,2). Dove sono orientati i miei desideri più profondi, la mia ricerca? Quali sono le mie aspirazioni, cosa occupa maggiormente i miei pensieri?
Siamo convinti che la Parola di Dio è in grado di soddisfare la sete di verità, e il mio rapporto con Lui è in grado di riempire il vuoto che, preti e laici, spesso viviamo?

3. Gesù conduce la donna ad interrogarsi su se stessa e su Colui che le sta davanti (16-29).

“Le dice: “Va’ a chiamare tuo marito e ritorna qui”. Gli risponde la donna: “Io non ho marito”.
Le dice Gesù: “Hai detto bene: “Io non ho marito”. Infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero”. Gli replica la donna: “Signore, vedo che tu sei un profeta! I nostri padri hanno adorato su questo monte; voi invece dite che è a Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare”. Gesù le dice: “Credimi, donna, viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate ciò che non conoscete, noi adoriamo ciò che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. Ma viene l’ora - ed è questa - in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità”. Gli rispose la donna: “So che deve venire il Messia, chiamato Cristo: quando egli verrà, ci annuncerà ogni cosa”. Le dice Gesù: “Sono io, che parlo con te”. “La donna intanto lasciò la sua anfora, andò in città e disse alla gente: “Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia lui il Cristo?”.
Gesù provoca nella donna la confessione della sua attuale situazione e riconosce la sincerità con cui ella parla di sé. Ma Egli, mostrando di conoscere la reale situazione di quella donna, la porta a scoprire chi è Gesù e la sua missione di messia-profeta. Attraverso il dialogo Gesù l’avvia in un cammino di progressive scoperte fino a giungere alla fede in Lui. Ad ogni progressiva rivelazione di Gesù fa seguito una confessione di fede sempre più piena della donna. Già precedentemente, di fronte all’offerta dell’“acqua viva” da parte di Gesù, la donna si era posta in forma interrogativa il problema: “Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe?”. Ora di fronte alla conoscenza e comprensione che Gesù mostra della sua storia, prosegue: “Signore, vedo che tu sei un profeta!”.
Questo riconoscimento la porta alla fiducia di chiedere la soluzione del contenzioso tra credenti Giudei e Samaritani, circa il luogo dove celebrare il culto voluto dal Signore. Gesù prosegue con la sua rivelazione: “La salvezza viene dai Giudei. Ma viene l’ora - ed è questa - in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano.
Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità”
. Gesù le dà la risposta qualificante: l’adorazione del Padre è il culto che si svolge sotto l’impulso dello Spirito e nella verità di Gesù. È la rivelazione del Dio che i Samaritani non conoscono. La donna percepisce che qui sta il cuore della rivelazione che Giudei e Samaritani attendono: essa riguarda la conoscenza di Dio e questa rivelazione sarà compito e prerogativa del Messia atteso: “Quando egli verrà, ci annuncerà ogni cosa”. Di fronte alla sincera ricerca e attesa della donna, Gesù le consegna la sua identità: “Sono io, che parlo con te”. Questa scena si conclude con la donna che corre in città a portare l’annuncio della rivelazione-scoperta: “Che sia lui il Cristo?”. E racconta del suo incontro e dialogo avvenuto al pozzo.
In quell’incontro nel quale la samaritana si è sentita non giudicata ma accolta, in quel dialogo libero in cui la donna e Gesù hanno parlato di se stessi, la donna è diventata credente riconoscendo in Gesù non più il giudeo sconosciuto ma il profeta e il Messia, e attraverso di Lui ha scoperto Dio, Padre Figlio e Spirito, e il vero culto come relazione con il Padre, per mezzo di Cristo, nello Spirito.

Per la verifica

“I veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità”.
Come curiamo il progresso della nostra fede come conoscenza di Dio, di Cristo, dello Spirito Santo, della Parola di Dio, della Chiesa, dei Sacramenti, della vita cristiana, della speranza del cristiano…? O rimaniamo sempre a livello di una fede infantile, data per scontata e ripetuta senza convinzione e approfondimento, senza chiarire eventuali dubbi o lacune? A quali iniziative partecipo per conoscere e approfondire la mia fede?
Quanto tempo dedico a questo aspetto importante della mia vita di fede? Coltivo la mia preghiera come ‘adorazione del Padre in Spirito e verità’ o rimane la solita cosa da fare in fretta (segno di croce, qualche messa quando ne ho voglia o perché tocca per qualche circostanza o per dovere verso gli altri…)?
“Sono io, che parlo con te!”. Vivo la preghiera come ascolto della sua Parola e come dialogo sulla mia stessa vita?
“Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia lui il Cristo?”. Sento la gioia, il desiderio e la missione di parlare agli altri della mia scoperta del Cristo e della fede? Mi faccio apostolo dell’incontro di altri con Cristo, specie in famiglia?
Per noi presbiteri il nostro parlare di Cristo e della fede è la comunicazione di una scoperta o è il doverne parlare perché tocca farlo? E noi genitori mandiamo i nostri i figli a catechismo o a messa perché ‘devono’ ricevere i Sacramenti o perché desideriamo che anche loro conoscano quel Gesù che noi abbiamo incontrato e di cui parliamo loro con convinzione ed entusiasmo?

4. Chi scopre il ‘Maestro’ porta altri a Lui, diventa cioè missionario (30.39-42).

Uscirono dalla città e andavano da lui. Molti Samaritani di quella città credettero in lui per la parola della donna, che testimoniava: “Mi ha detto tutto quello che ho fatto“. E quando i samaritani giunsero da lui, lo pregavano di rimanere da loro ed egli rimase là due giorni. Molti di più credettero per la sua parola e alla donna dicevano: “Non è più per i tuoi discorsi che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo”.
Molti accorrono, e vanno da Gesù perché credono inizialmente in Lui per la testimonianza della donna. Ma poi loro stessi chiedono a Gesù di rimanere da loro. È il tempo dell’approfondimento della loro fede restando in ascolto di Gesù e accogliendo la sua Parola. Ecco il risultato finale: attraverso quell’ascoltare la Parola e lo stare con Lui essi giungono alla loro confessione di fede: “Noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo”. La funzione della donna è finita, lei si è fatta strumento perché nascesse davvero una comunità di credenti che, in ascolto di Lui e nello stare con Lui, lo hanno riconosciuto come “il Cristo, il Salvatore del mondo”, Salvatore dei Giudei e dei Samaritani. La Samaritana è divenuta testimone e missionaria, e ha portato altri uomini a diventare discepoli di Gesù. È bello pensare che in questo racconto l’evangelista ricollega la nascita della comunità cristiana in Samaria per l’azione missionaria di questa donna, come la comunità cristiana di Filippi è nata dall’incontro dell’Apostolo Paolo con Lidia e altre donne (At 16,11-15).

Per la verifica

“Noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo”.
Quanto ci sentiamo lontani da questa affermazione? La fede, ci ricorda san Paolo, viene dall’ascolto, per questo ci vuole chi annunci, ma poi ci vuole l’adesione e l’impegno personale per continuare ad approfondire i contenuti della fede a cui abbiamo aderito.

Alcune possibili conseguenze operative diocesane, vicariali e parrocchiali da porre in atto per la cura della fede

Premesse:
- Di fronte al progressivo processo di scristianizzazione e di preoccupante perdita dei valori umano/cristiani, cosa riteniamo di dover mettere in atto per arginare questa progressiva deriva dell’adesione alla fede cristiana e alla chiesa cattolica?
- Ci rendiamo conto che la gran parte delle nostre comunità cristiane non trovano nell’evangelizzazione che ordinariamente proponiamo (catechesi e sacramenti) la risposta convincente alla grande domanda: come vivere?
- Abbiamo il coraggio e la voglia di valutare insieme le modalità e priorità concrete della nostra chiesa diocesana da offrire alla nostra gente per testimoniare Cristo e la forza del vangelo?
- Quali nuovi atteggiamenti assumere per superare i pregiudizi, l’indifferenza e il rifiuto dell’annuncio evangelico in questo nostro tempo, in famiglia, nel mondo del lavoro, nell’impegno sociale e politico?
- Quali opportunità offre la comunità cristiana e quanto spazio e attenzione vengono riservati alla formazione alla fede adulta dopo il periodo dell’iniziazione cristiana?
- Riconosciamo che oggi diventa sempre più necessaria la preparazione di veri e consapevoli sposi e genitori ‘cristiani’?
- Il matrimonio è l’unico sacramento che viene dato agli adulti e che quindi prevede la consapevolezza della fede adulta, per essere richiesto e dato. Non è il caso di rivedere profondamente la nostra prassi ‘pastorale’ di preparazione e di celebrazione di questo Sacramento, dove le cose più importanti diventano, dal punto di vista religioso, la scelta della chiesa e del prete?
Non sarebbe bene che ogni matrimonio venisse celebrato nella propria comunità, con il proprio parroco? Nessuno vieta la presenza di amici, siano essi laici o preti concelebranti accanto al parroco, nella sua funzione di parroco!

Conclusioni operative

a. Per comprendere in modo più profondo l’atto con cui decidiamo di affidarci totalmente a Dio,
in piena libertà propongo che le Comunità parrocchiali:

- offrano ai loro membri momenti di esperienza di preghiera, oltre l’eucaristia domenicale;
- operino per un ‘ritorno’ alla messa domenicale dei fedeli, favorendo una partecipazione attiva, gioiosa e ‘nutriente’ della vita di fede;
- nel tempo della quaresima si proponga una catechesi battesimale prolungata e seria perché la veglia pasquale sia davvero la principale celebrazione esemplare nella quale si vive il prolungato ascolto della Parola. L’adesione a quella Parola porta al rinnovamento del battesimo per tutta la comunità. Tale rinnovamento sia messo in evidenza con appositi segni. Questa veglia, madre di tutte le veglie, sia preparata accuratamente attraverso un ‘cammino mistagogico battesimale’proposto a tutta la comunità;
- la preparazione dei fidanzati al matrimonio e la preparazione delle famiglie al battesimo dei propri figli siano offerti come le più significative opportunità di catechesi agli adulti, di cui i pastori delle comunità devono farsi carico, facendosi aiutare, ma non delegando senza la loro presenza alla preparazione, dato che sono poi loro i responsabili che valutano e dichiarano l’idoneità dei richiedenti a ricevere i sacramenti, che poi essi stessi conferiscono o di cui delegano il conferimento.
Credo che queste siano scelte qualificanti e vincolanti per un parroco e per ogni presbitero nel suo ministero.

b. Per comprendere in modo più profondo i contenuti della fede propongo che:
- il rinnovamento della catechesi dell’iniziazione cristiana sia caratterizzato dal coinvolgimento e dalla partecipazione degli adulti non solo al momento celebrativo, ma all’intero percorso di preparazione alla celebrazione del Sacramento, secondo le indicazioni diocesane che verranno date;
- gli Uffici diocesani interessati, i vicariati e le parrocchie cerchino insieme le modalità graduali operative perché queste indicazioni non restino ‘lettera morta’.
È necessario poi che ci siano le occasioni di verifica di quanto scelto e operato nelle singole comunità.

- II - Appartenenza alla chiesa locale e corresponsabilità


La missione di trasmettere e prendersi cura della fede è compito di tutti i battezzati e va svolto nella corresponsabilità ecclesiale, ciascuno secondo il ministero ricevuto.
Il tema della corresponsabilità ci accompagna almeno da tre anni. Mi sono andato a rileggere i programmi pastorali dei tre anni passati sulla corresponsabilità. Devo dire che qualche risultato c’è stato, ma molto resta da fare. Dobbiamo, innanzitutto noi presbiteri, impegnarci (essere ministri implica l’agire e non solo il dire) perché la corresponsabilità nelle nostre comunità parrocchiali e nella Comunità o Chiesa Locale diocesana diventi reale. Va superata la consuetudine che compete al prete fare tutto quanto è richiesto in
ordine alla vita delle comunità parrocchiali, specie per quanto riguarda la trasmissione e la cura della fede. Dobbiamo renderci conto che la nostra Chiesa diocesana attualmente conta 66 sacerdoti presenti in diocesi, di cui 16 sopra gli 80 anni e 9 oltre i 75, e quasi tutti continuano ad offrire comunque il servizio ancora possibile. Resta il fatto che ci sono 41 preti sotto i 75 anni per 60 parrocchie, perché nelle altre 7 sono presenti sacerdoti religiosi. Dobbiamo prenderne atto noi preti per non continuare a presumere di ‘fare tutto noi’ e ne devono prendere atto i laici per offrire una presenza attiva nella vita della parrocchia. C’è già una valida collaborazione di laici, ma dobbiamo procedere ulteriormente e più decisamente nella direzione di creare il senso della corresponsabilità e partecipazione.
A tal proposito scrive il Papa
: “Il cristiano non può mai pensare che credere sia un fatto privato. La fede è decidere di stare con il Signore per vivere con Lui. E questo “stare con Lui” introduce alla comprensione delle ragioni per cui si crede. La fede, proprio perché è atto della libertà, esige anche la responsabilità sociale di ciò che si crede. La Chiesa nel giorno di Pentecoste mostra con tutta evidenza questa dimensione pubblica del credere e dell’annunciare senza timore la propria fede ad ogni persona. È il dono dello Spirito Santo che abilita alla missione e fortifica la nostra testimonianza, rendendola franca e coraggiosa. La stessa professione della fede è un atto personale ed insieme comunitario. È la Chiesa, infatti, il primo soggetto della fede. Nella fede della Comunità cristiana ognuno riceve il Battesimo, segno efficace dell’ingresso nel popolo dei credenti per ottenere la salvezza. Come attesta il : “«Io credo»; è la fede della Chiesa professata personalmente da ogni credente, soprattutto al momento del Battesimo. «Noi crediamo» è la fede della Chiesa confessata dai Vescovi riuniti in Concilio, o più generalmente, dall’assemblea liturgica dei fedeli. «Io credo»: è anche la Chiesa nostra Madre, che risponde a Dio con la sua fede e che ci insegna a dire «Io credo», «Noi crediamo»” (P.F. 10).
Fa dunque parte dell’essere cristiani la corresponsabilità per e nella Comunità cristiana. Vorrei spendere ancora qualche parola sul fondamento della corresponsabilità nella Chiesa, perché giungiamo a riconoscere che non si tratta di un ‘optional’ ma di un elemento essenziale dell’essere Chiesa.

a. Corresponsabilità e comunione tra Vescovo-presbiteri-laici nella chiesa locale.
La corresponsabilità in una Chiesa locale, come nella Chiesa universale, nasce attorno ad un principio di unità, che non significa però uniformità. Potrebbe essere illuminante il paragone di san Paolo sull’unico corpo e le varie membra come leggiamo in 1Cor 12,12-28 che cito solo in parte: “Come infatti il corpo è uno solo e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche il Cristo. Infatti noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti siamo stati dissetati da un solo Spirito. E infatti il corpo non è formato da un membro solo, ma da molte membra…. Ora voi siete corpo di Cristo e, ognuno secondo la propria parte, sue membra. Alcuni perciò Dio li ha posti nella Chiesa in primo luogo come apostoli, in secondo luogo come profeti, in terzo luogo come maestri…”.
In proposito è significativo quanto leggiamo al capitolo IV della Costituzione conciliare sulla Sacra Liturgia, ai numeri 41 e 42.
“La vita liturgica nella diocesi e nella parrocchia 41. Il vescovo deve essere considerato come il grande sacerdote del suo gregge: da lui deriva e dipende in certo modo la vita dei suoi fedeli in Cristo. Perciò tutti devono dare la più grande importanza alla vita liturgica della diocesi che si svolge intorno al vescovo, principalmente nella chiesa cattedrale, convinti che c’è una speciale manifestazione della Chiesa nella partecipazione piena e attiva di tutto il popolo santo di Dio alle medesime celebrazioni liturgiche, soprattutto alla medesima eucaristia, alla medesima preghiera, al medesimo altare cui presiede il vescovo circondato dai suoi sacerdoti e ministri.
Vita liturgica parrocchiale
42. Poiché nella sua Chiesa il vescovo non può presiedere personalmente sempre e ovunque l’intero suo gregge, deve costituire necessariamente dei gruppi di fedeli, tra cui hanno un posto preminente le parrocchie organizzate localmente e poste sotto la guida di un pastore che fa le veci del vescovo: esse infatti rappresentano in certo modo la Chiesa visibile stabilita su tutta la terra. Per questo motivo la vita liturgica della parrocchia e il suo legame con il vescovo devono essere coltivati nell’animo e nell’azione dei fedeli e del clero; e bisogna fare in modo che il senso della comunità parrocchiale fiorisca soprattutto nella celebrazione comunitaria della messa domenicale”.
La Lettera Enciclica Ecclesia de Eucharistia di Giovanni Paolo II titola il capitolo secondo “L’eucaristia edifica la chiesa”. Al n° 23 scrive: “Con la comunione eucaristica la Chiesa è parimenti consolidata nella sua unità di corpo di Cristo. San Paolo si riferisce a questa efficacia unificante della partecipazione al banchetto eucaristico quando scrive ai Corinzi: «E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane» (1 Cor 10,16-17).
Puntuale e profondo il commento di san Giovanni Crisostomo: «Che cos’è infatti il pane? È il corpo di Cristo. Cosa diventano quelli che lo ricevono? Corpo di Cristo; ma non molti corpi, bensì un solo corpo. Infatti, come il pane è tutt’uno, pur essendo costituito di molti grani, e questi, pur non vedendosi, comunque si trovano in esso, sì che la loro differenza scompare in ragione della loro reciproca perfetta fusione; alla stessa maniera anche noi siamo uniti reciprocamente fra noi e tutti insieme con Cristo». L’argomentazione è stringente: la nostra unione con Cristo, che è dono e grazia per ciascuno, fa sì che in Lui siamo anche associati all’unità del suo corpo che è la Chiesa. L’Eucaristia rinsalda l’incorporazione a Cristo, stabilita nel Battesimo mediante il dono dello Spirito (cfr 1 Cor 12,13.27).
La corresponsabilità scaturisce dalla comunione che è l’essenza della chiesa originata e significata nel Sacramento dell’Eucaristia.
E concludo con quanto scrive nell’Esortazione Apostolica Postsinodale
Sacramentum Caritatis Papa Benedetto XVI al n° 15: “L’Eucaristia, dunque, è costitutiva dell’essere e dell’agire della Chiesa. Per questo l‘antichità cristiana designava con le stesse parole «Corpus Christi» il Corpo nato dalla Vergine Maria, il Corpo eucaristico e il Corpo ecclesiale di Cristo. Questo dato ben presente nella tradizione ci aiuta ad accrescere in noi la consapevolezza dell’inseparabilità tra Cristo e la Chiesa. Il Signore Gesù, offrendo se stesso in sacrificio per noi, ha efficacemente preannunciato nel suo dono il mistero della Chiesa. È significativo che la seconda preghiera eucaristica, invocando il Paraclito, formuli in questo modo la preghiera per l’unità della Chiesa: «per la comunione al corpo e al sangue di Cristo lo Spirito Santo ci riunisca in un solo corpo».
Questo passaggio fa ben comprendere come la res del Sacramento eucaristico sia l’unità dei fedeli nella comunione ecclesiale. L’Eucaristia si mostra così alla radice della Chiesa come mistero di comunione.

Per la verifica

Questi testi biblici e del magistero ecclesiale richiedono una seria verifica anche sulla valenza ecclesiologica della celebrazione comunitaria della messa domenicale, preoccupati come siamo di ‘fare tante messe’ più che dell’azione pedagogica di “
fare in modo che il senso della comunità parrocchiale fiorisca soprattutto nella celebrazione comunitaria della messa domenicale”. Se «per la comunione al corpo e al sangue di Cristo lo Spirito ci riunisce in un solo corpo» ne consegue che nella Chiesa non ci può essere membro, come argomenta san Paolo, che possa sottrarsi dallo svolgere la sua funzione, ed escludere qualche membro dalla sua funzione significa minacciare la vitalità e l’integrità del Corpo che è la Chiesa.
Quanta strada dobbiamo ancora fare perché la messa domenicale non sia per noi e per i fedeli solo ‘assolvere il precetto individuale’, e nella forma più comoda e spiccia, e sia invece il luogo dove fiorisce il senso della comunità parrocchiale ed ecclesiale!
Quale attenzione e priorità diamo alle iniziative che favoriscono l’unità parrocchiale, rispetto ad interessi singoli o di gruppo? Come va crescendo il ruolo dei ‘vicariati’ per favorire l’unità e il cammino comune nella chiesa diocesana? C’è partecipazione e attenzione per iniziative o celebrazioni a carattere diocesano, specie in Cattedrale, dove si manifesta visibilmente l’unità della stessa Chiesa diocesana (festa dei patroni, messa crismale del giovedì santo, ordinazioni presbiterali, apertura anno pastorale…)?

b. Rapporto vescovo-presbiteri.
Anche se molti sono stati gli interventi magisteriali e teologici in materia nel dopo Concilio, mi riferisco al numero 7 del Decreto conciliare sul “Ministero e Vita dei Presbiteri” che porta come titolo: Il vescovo e i presbiteri. Invitando a leggere l’intero numero, riporto qui alcuni passi. “Tutti i presbiteri, in unione con i vescovi, partecipano del medesimo e unico sacerdozio e ministero di Cristo, in modo tale che la stessa unità di consacrazione e di missione esige la comunione gerarchica dei presbiteri con l’ordine dei vescovi manifestata ottimamente nel caso della concelebrazione liturgica; questa unione con i vescovi è affermata esplicitamente nella celebrazione eucaristica. I vescovi pertanto, grazie al dono dello Spirito Santo che è concesso ai presbiteri nella sacra ordinazione, hanno in essi dei necessari collaboratori e consiglieri nel ministero e nella funzione di istruire, santificare e governare il popolo di Dio. […]
Per questa comune partecipazione nel medesimo sacerdozio e ministero, i vescovi considerino dunque i presbiteri come fratelli e amici, e stia loro a cuore, in tutto ciò che possono, il loro benessere materiale e soprattutto spirituale. È ai vescovi, infatti, che incombe in primo luogo la grave responsabilità della santità dei loro sacerdoti: essi devono pertanto prendersi cura con la massima serietà della formazione permanente del proprio presbiterio. Siano pronti ad ascoltarne il parere, anzi, siano loro stessi a consultarlo e a esaminare assieme i problemi riguardanti le necessità del lavoro pastorale e il bene della diocesi….
I presbiteri, dal canto loro, avendo presente la pienezza del sacramento dell’ordine di cui godono i vescovi, venerino in essi l’autorità di Cristo supremo pastore. Siano dunque uniti al loro vescovo con sincera carità e obbedienza. Questa obbedienza sacerdotale, pervasa dallo spirito di collaborazione, si fonda sulla stessa partecipazione del ministero episcopale, conferita ai presbiteri attraverso il sacramento dell’ordine e la missione canonica.
Nessun presbitero è quindi in condizione di realizzare a fondo la propria missione se agisce da solo e per proprio conto, senza unire le proprie forze a quelle degli altri presbiteri, sotto la guida di coloro che governano la Chiesa”.
Ho desiderato proporre alla riflessione di tutta la comunità diocesana anche l’aspetto del rapporto tra vescovo e presbiteri e dell’unità tra i presbiteri, perché questo aspetto non riguarda solo loro, ma riguarda la qualità e la vitalità dell’intera nostra chiesa diocesana e delle singole comunità parrocchiali. Nessuna comunità parrocchiale è fine a se stessa e vive isolata, ma deve accogliere e favorire l’opera dei suoi sacerdoti in unità con tutta la chiesa diocesana. Ritengo che anche su questo ambito abbiamo tutti molto da crescere, vescovo, presbiteri e laici. Se la nostra comunione non sarà solo formale allora scatterà anche il desiderio dell’unità e della corresponsabilità per tutta la Chiesa diocesana in tutti i suoi aspetti.

Per la verifica

- Come vengono valutati dai confratelli i rapporti vescovo-presbiteri e presbiteri-vescovo nell’esercizio della corresponsabilità per l’intera Chiesa diocesana? Dove e come possono essere migliorati?
- E i laici come vedono i rapporti dei preti tra di loro e con il vescovo in ordine alla comunione e alla corresponsabilità?
- I presbiteri sentono la corresponsabilità della vita e della situazione dell’intera diocesi cui appartengono con il legame sacramentale dell’Ordine Sacro?

c. Rapporto pastori-laici.
Attingo ancora al Concilio, nella parte finale del n° 37 della “Lumen Gentium”:
“I pastori, da parte loro, riconoscano e promuovano la dignità e la responsabilità dei laici nella Chiesa; si servano volentieri del loro prudente consiglio, con fiducia affidino loro degli uffici in servizio della Chiesa e lascino loro libertà e margine di azione, anzi li incoraggino perché intraprendano delle opere anche di propria iniziativa. Considerino attentamente e con paterno affetto in Cristo le iniziative, le richieste e i desideri proposti dai laici e, infine, rispettino e riconoscano quella giusta libertà, che a tutti compete nella città terrestre.
Da questi familiari rapporti tra i laici e i pastori si devono attendere molti vantaggi per la Chiesa: in questo modo infatti si afferma nei laici il senso della propria responsabilità, ne è favorito lo slancio e le loro forze più facilmente vengono associate all’opera dei pastori. E questi, aiutati dall’esperienza dei laici, possono giudicare con più chiarezza e opportunità sia in cose spirituali che temporali; e così tutta la Chiesa, forte di tutti i suoi membri, compie con maggiore efficacia la sua missione per la vita del mondo”.
Commentando quest’ultimo capoverso del numero 37 della Lumen Gentium, Papa Benedetto XVI afferma: “La Costituzione dogmatica Lumen Gentium qualifica lo stile dei rapporti tra laici e Pastori con l’aggettivo «familiare». Cari amici, è importante approfondire e vivere questo spirito di comunione profonda nella Chiesa, caratteristica degli inizi della Comunità cristiana, come attesta il libro degli Atti degli Apostoli: «La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuor solo e un’anima sola» (4,32). Sentite come vostro l’impegno ad operare per la missione della Chiesa: con la preghiera, con lo studio, con la partecipazione attiva alla vita ecclesiale, con uno sguardo attento e positivo verso il mondo, nella continua ricerca dei segni dei tempi. Non stancatevi di affinare sempre più, con un serio e quotidiano impegno formativo, gli aspetti della vostra peculiare vocazione di fedeli laici, chiamati ad essere testimoni coraggiosi e credibili in tutti gli ambiti della società, affinché il Vangelo sia luce che porta speranza nelle situazioni problematiche, di difficoltà, di buio, che gli uomini d’oggi trovano spesso nel cammino della vita”.
(Papa Benedetto, in occasione del Forum Internazionale di Azione Cattolica, alla VI Assemblea Ordinaria in Romania, svoltasi lo scorso 24 agosto 2012, che aveva per tema la “Corresponsabilità ecclesiale e sociale”).
E poco più sopra, nello stesso documento il papa scriveva:
“La corresponsabilità esige un cambiamento di mentalità riguardante, in particolare, il ruolo dei laici nella Chiesa, che vanno considerati non come «collaboratori» del clero, ma come persone realmente «corresponsabili» dell’essere e dell’agire della Chiesa. È importante, pertanto, che si consolidi un laicato maturo ed impegnato, capace di dare il proprio specifico contributo alla missione ecclesiale, nel rispetto dei ministeri e dei compiti che ciascuno ha nella vita della Chiesa e sempre in cordiale comunione con i Vescovi”.
Ritengo che instaurare una vera responsabilità farebbe gradualmente maturare nei laici la disponibilità ad assumere dei ministeri nella Chiesa e di diventare propositivi in ordine alle scelte pastorali. Inoltre renderebbe il presbitero più disponibile a curare la vita spirituale della comunità, la qualità delle celebrazioni liturgiche, l’accompagnamento e la formazione dei catechisti, la conoscenza e vicinanza alla vita delle famiglie, la disponibilità per l’accompagnamento spirituale personale di quanti ne sentissero l’esigenza. Se è vero che i laici fanno fatica ad assumere responsabilità è altrettanto vero che anche i presbiteri faticano a riconoscere le responsabilità laicali.

Per la verifica

Su questo argomento dovremo avere il coraggio di risposte sincere, non addomesticate o evasive, pena continuare a rifiutare o non accogliere una vera partecipazione responsabile dei laici in ambiti della vita della comunità ecclesiale non legati strettamente all’esercizio del ministero presbiterale.
È necessario passare dalla collaborazione, richiesta o accettata, alla corresponsabilità riconosciuta, rispettata e promossa. Solo così nasceranno figure che non solo danno una mano ma che pensano insieme un comune progetto pastorale e si assumono la corresponsabilità nella fase esecutiva e della verifica. Forse nascerebbe qualcosa di nuovo nella nostra Chiesa.

Proposte operative


- Costituire o migliorare il funzionamento degli organismi dove si pratica la corresponsabilità: Consiglio presbiterale, Consiglio pastorale diocesano, Consigli pastorali vicariali e parrocchiali, Consigli per gli affari economici diocesano e parrocchiali, Consulta delle aggregazioni ecclesiali laicali…
- Riconoscere e promuovere sinceramente il ruolo specifico dei laici, apprezzare e mettere a frutto la loro esperienza e competenza nei diversi campi dell’attività umana, scoprire e valorizzare con senso di fede tutti i carismi, sia quelli considerati umili che quelli grandi (non così san Paolo in 1Cor 12!), riconoscendoli con gioia e incoraggiandoli con diligenza.
- Umanizzare gli spazi della vita ecclesiale perché diventino luoghi di convivenza civile e formazione umana e sociale, con l’impegno di suscitare uomini e donne capaci di assumersi responsabilità dirette nei vari ambiti ecclesiali, sociali e politici, con onestà e competenza.
Si potrebbero investire energie in qualche proposta formativa qualificata?

- III - Testimonianza e impegno


“Professare con la bocca, a sua volta, indica che la fede implica una testimonianza ed un impegno pubblici”
(P.F. 10)
La particolare situazione sociale e culturale attuale, anche del nostro territorio, richiede di dare all’azione ecclesiale una tipica e permanente visibilità ‘davanti agli uomini’ (Mt 5,16), non quella di tipo farisaico condannata da Gesù in Mt 23,5:
“Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini”, ma perché “vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli” (Mt 5,16).
Se
è possibile che dalle opere, non necessariamente generate dalla fede o dall’appartenenza ecclesiale, prenda avvio un cammino verso la fede, dalla fede autentica devono scaturire le opere ‘buone’. I frutti della vita spirituale sono i frutti dello Spirito ricordati da san Paolo in Gal 6, 22-25:
“Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; contro queste cose non c’è Legge. Quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la carne con le sue passioni e i suoi desideri. Perciò se viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito. Non cerchiamo la vanagloria, provocandoci e invidiandoci gli uni gli altri”.
Prima di parlare di opere bisogna parlare di atteggiamenti e stili di vita ‘cambiati’ o convertiti. San Paolo ci offre un’analisi profonda della differenza tra opere e atteggiamenti in 1Cor 13. Si possono fare tante opere, pur molto utili, ma non ispirate all’amore autentico, sincero e disinteressato, ma spesso suscitate dal desiderio di emergere, di averne più o meno nascosto interesse personale o altro. La prima testimonianza avviene dagli atteggiamenti con i quali ci poniamo in relazione agli altri, grandi o piccoli, potenti o deboli, socialmente importanti o insignificanti, ricchi o poveri, culturalmente affini o lontani. Ascoltiamo ancora una volta san Paolo: “E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe. La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta” (13,3-7). San Paolo sottilmente distingue le azioni dagli atteggiamenti, come del resto aveva fatto Gesù (Mt 23,5-7). Da atteggiamenti di amore, giustizia e gratuità scaturiranno opere che diventano autentica testimonianza di fede.Chi incontra e fa esperienza di Dio amore e giustizia, come si è rivelato in Cristo, e gli dà la sua adesione, sarà poi portato a fare della sua vita un dono che si concretizza in ‘opere’ d’amore. San Giacomo (Gc 2, 14-18) ci suggerisce: “A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere fede, ma non ha le opere? Quella fede può forse salvarlo? Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: “Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi”, ma non date loro il necessario per il corpo, a che cosa serve? Così anche la fede: se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta. Al contrario uno potrebbe dire: “Tu hai la fede e io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede“.
Ciò richiede che ciascuno, laico o presbitero o consacrato, verifichi continuamente il proprio stile di vita nel quale deve trasparire quello del vangelo. Sarà disponibile a costruire, in dialogo con tutti i cercatori della verità, percorsi di bene comune, senza soluzioni preconfezionate e senza paura di mettere in gioco la vita, nella certezza che “il chicco di grano, caduto nella terra, se muore porta molto frutto” (Gv 12,24). L’impegno del credente alimentato con la preghiera, con lo studio, con la partecipazione attiva alla vita ecclesiale si traduce in opere dallo sguardo aperto sul mondo circostante, in tutti gli ambiti ecclesiali, sociali, civili, economici e politici, con la coerenza forte e coraggiosa del Vangelo.
Oggi, in un contesto culturale e sociale dove prevale l’interesse personale e di gruppo, dove rischia di andare in crisi l’idea stessa di ‘bene comune’ perché, troppo spesso, sotto questo nome si nasconde l’interesse privato, c’è bisogno di una testimonianza pura e trasparente di autentico ‘bene comune’. C’è bisogno di segni di fede, di speranza e di carità anche nella nostra Chiesa di Chioggia, nella nostra Città, nel nostro territorio. Urgono atteggiamenti-segno, scelte-segno, opere-segno, persone-segno che, seppur non risolvono tutte le situazioni, mostrano che il discepolo di Cristo, impegnato nelle realtà temporali,
“aspira a una patria migliore, cioè a quella celeste” (Ebr 11,16).
Ancorato e illuminato dalla Risurrezione di Cristo, egli opera nel presente senza lasciarsi prendere da quella brama o cupidigia dei beni terreni “che è idolatria” (Col 3,1-5).


Per la verifica

- Cosa ha fatto perdere alla Chiesa il mordente e la capacità di essere forza trainante nella costruzione di una società che sa stare dentro il proprio tempo con passione, per ricucire le ferite, le contrapposizioni, per ristabilire le relazioni umane e ridare speranza, specie ai poveri e sfruttati?
- Come la Chiesa può ancora dare senso alla vita delle comunità umane?
- Quali sono i punti deboli della testimonianza di laici credenti, di presbiteri e pastori in mezzo al nostro popolo? Con quali atteggiamenti e opere conseguenti la chiesa può oggi
‘risplendere davanti agli uomini, perché vedendo le sue opere buone gli uomini glorifichino Dio?’ (Mt 5,16).

Conseguenze operative

- Far conoscere e tenere in vita e potenziare le opere-segno che già sono presenti nella nostra chiesa e nel nostro territorio, curando non solo l’offerta dei beni necessari alla vita fisica ma offrendo anche opportunità di formazione umana e spirituale, come laboratori aperti a tutti coloro che vogliono impegnarsi (comunità di accoglienza e accompagnamento, centri di ascolto…).
- Offrire collaborazione perché anche nella vita sociale siano promossi segni di attenzione in favore delle persone più deboli, fragili, indifese, non autosufficienti, come i poveri, gli anziani, i malati, i disabili, le famiglie in difficoltà.
- Potrebbe essere utile migliorare gli strumenti della comunicazione con l’apporto qualificato e stimolante di più persone, per offrire proposte formative che permettano a molti di accedere ai beni culturali in funzione educativa.
- Investire in proposte di sensibilizzazione nell’ambito della solidarietà, del volontariato, della cooperazione, dell’educazione all’eticità e legalità, e dell’impegno politico come servizio e non come occasione di profitto. Si può utilizzare per la sensibilizzazione su questi aspetti il tempo di Avvento.
- Promuovere qualche dibattito e proposta che favorisca il dialogo chiesa-mondo.

Nota di accompagnamento

- Questo scritto vuole essere occasione e stimolo perché si rifletta personalmente e perché si giunga a scelte operative a livello diocesano, vicariale e parrocchiale.
- Sarebbe bene che in ciascuna parrocchia e vicariato si prendesse in mano con calma in più incontri questo testo e da questo testo nascessero offerte formative e testimoniali concrete e anche scelte pastorali e collaborative reali.
- La proposta ‘triennale’ dovrebbe offrire l’opportunità di operare delle scelte da realizzare e di verificarne poi l’effettiva realizzazione e utilità.
- L’eventuale ventilata visita pastorale potrebbe porsi su questi orizzonti.


+ Adriano Tessarollo

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